Introdurlo senza la preferenza indigena sarebbe solo un regalo ai frontalieri

Il triciclo PLR-PPD-P$ la scorsa settimana ha rottamato  “Prima i nostri” in Gran Consiglio, prendendo a pesci in faccia la democrazia. L’esito delle votazioni popolari sgradite alla casta cameriera dell’UE può dunque essere impunemente cancellato. L’élite spalancatrice di frontiere, invece di difendere gli interessi dei ticinesi, difende a) quelli dei frontalieri e b) quelli dei datori di lavoro disonesti che approfittano della disponibilità, oltreconfine, di un bacino praticamente sterminato di manodopera a basso costo e senza sbocchi professionali in casa propria (la situazione occupazionale nel Belpaese è allo sfascio e non ci sono prospettive di miglioramento).

De profundis

I kompagnuzzi, notoriamente, difendono per motivi ideologici la devastante libera circolazione delle persone, la quale ha generato la guerra tra poveri in atto da anni. Una guerra da cui i ticinesi – vergognosamente traditi dai loro stessi politicanti – non possono che uscire perdenti.

Ma i ro$$i spalancatori di frontiere, nella loro foga internazionalista, si sono dimenticati di una cosetta. Cancellando la preferenza indigena voluta dal “popolazzo becero che vota sbagliato”, hanno suonato il De Profundis anche per il salario minimo, con cui amano sciacquarsi la bocca.

Di introdurre il salario minimo senza la preferenza indigena, infatti, non se ne parla nemmeno. Con la preferenza indigena, o meglio ancora senza la devastante libera circolazione delle persone, certo che si potrebbe parlare di salari minimi, ma solo per residenti. E anche più alti di quelli proposti: perché con 3200 Fr al mese in Ticino (se si è da soli a lavorare con una famiglia a carico) notoriamente non si campa.

Chiaro: anche nell’attuale regime di devastante libera circolazione senza alcun limite voluto dalla partitocrazia, $inistruccia multikulti in prima linea, si potrebbe proporre un salario minimo solo per i residenti. Il risultato sarebbe però, ma guarda un po’, quello di fomentare la sostituzione di lavoratori ticinesi con frontalieri pagati la metà o meno (altro che venirci a propinare la fregnaccia che i residenti in Italia hanno i “profili” migliori!). Un salario minimo uguale per tutti sarebbe per contro un regalo ai frontalieri e un danno ai ticinesi: gli stipendi dei ticinesi subirebbero infatti una pressione al ribasso, appiattendosi verso il minimo. Per la serie: o accetti il salario minimo, o assumo un frontaliere per quella paga lì. Senza contare le innumerevoli possibilità di aggiramento (ad esempio: frontaliere assunto e pagato ufficialmente al 50%, ma che però lavora al 100%).

Niente regali ai frontalieri

In più, il regalo ai frontalieri tramite salario minimo non farà che aumentare l’attrattività del Ticino aggravando l’invasione da sud, che ha da tempo raggiunto livelli insostenibili. Infatti, solo due giorni dopo la rottamazione di “Prima i nostri” ad opera del triciclo PLR-PPD-P$, si è appreso che il numero dei frontalieri in Ticino ha infranto l’ennesimo record. E che i frontalieri sono esplosi in particolare nel settore Terziario, dove non colmano alcuna lacuna ma semplicemente soppiantano i residenti, come ormai ha capito anche “quello che mena il gesso”.

Il problema è il clamoroso differenziale tra il costo della vita al di qua e al di là della ramina. Per questo, intervenire sul salario è sbagliato di principio. A fare stato devono essere altri due elementi: il potere d’acquisto del lavoratore ed il costo del personale per il datore di lavoro.

La soluzione sarebbe…

Assumere un frontaliere o un ticinese deve costare uguale alla ditta; e il residente ed il frontaliere, a casa loro, devono avere lo stesso potere d’acquisto. Se il salario dei ticinesi è uguale a quello dei frontalieri, il potere d’acquisto è diversissimo; dunque si fa un regalo ai frontalieri. Se il potere d’acquisto è invece uguale, vuol dire che il salario è differente, e allora si fomentano dumping e sostituzione. La via d’uscita sarebbe: il ticinese ed il frontaliere vengono pagati uguali (quindi costano uguali al datore di lavoro) però una parte del salario del frontaliere viene trattenuto e va ad alimentare (ad esempio) un fondo per la promozione dell’impiego, o per le infrastrutture, o per altri scopi di pubblica utilità. Ma poiché non ci vuole il mago Otelma per prevedere che la partitocrazia strillerebbe scandalizzata che una simile costruzione giuridica (uella) non è fattibile (“sa po’ mia!”), a mente di chi scrive ci sono solo due possibilità. O il triciclo fa retromarcia e resuscita la preferenza indigena, e allora si può entrare nel merito di un salario minimo. Oppure il salario minimo è morto assieme a Prima i nostri; affossato da quella stessa $inistra che se ne riempie bocca ad oltranza. Questo almeno per i prossimi anni. Se un domani, come possiamo solo augurarci, salterà la libera circolazione delle persone, allora si potrà tornare a parlare di salario minimo (per i residenti). Fino ad allora il capitolo è chiuso. E questo grazie (anche) ai promotori del salario minimo.

Lorenzo Quadri