La sostituzione degli svizzeri con stranieri sul posto di lavoro interessa anche le direzioni d’impresa. Da uno studio della società Guido Schilling, specializzata nella ricerca di quadri aziendali, emerge un dato allarmante: già oggi il 45% dei manager impiegati dalle principali aziende elvetiche proviene dall’estero. Si prevede che questa quota supererà il 50% nel 2015. Traduzione: nel giro di un paio d’anni, la maggioranza dei dirigenti delle principali società svizzere sarà straniero.
Una situazione che, qui in via Monte Boglia, ci pare assai inquietante sotto vari aspetti. In prima linea, per quel che riguarda l’assunzione di dirigenti stranieri al posto di dirigenti svizzeri. Forse che non ci sono svizzeri in grado di assumere ruoli di primo piano nell’economia? Forse che le nostre università non sono d’eccellenza? Poi, per il fatto che il CEO straniero potrebbe portare in Svizzera una cultura (o in-cultura) d’azienda estranea alla nostra tradizione, e basata – ad esempio – su operazioni al limite del lecito; ed inoltre non ha legami col territorio e non sente, pertanto, alcuna responsabilità sociale nei confronti del Paese.
L’ “inforestieramento dirigenziale” deve preoccupare?
Gli svizzeri non sanno più lavorare?
Franco Ambrosetti, presidente della Camera di commercio, dell’industria e dell’artigianato ticinese (CCIA-Ti) non nasconde che “una certa preoccupazione c’è. In effetti, il problema non è nuovo. Già alla fine degli anni Sessanta, sono sbarcate in tutta Europa aziende americane i cui dirigenti erano solo americani, che non conoscevano la mentalità europea, né la capivano. E questo generava frizioni. Poi il problema si è risolto da solo, nel senso che questi manager o se ne sono andati da soli vista la loro incompatibilità con la realtà locale, oppure si sono europeizzati. E’ chiaro che la prospettiva di avere, nel giro di un paio d’anni, nelle principali aziende svizzere, una maggioranza di direttori stranieri qualche interrogativo lo suscita, specie se questo tipo di processi avviene troppo in fretta. Anche perché c’è da chiedersi come mai non vengono assunti manager svizzeri. Dove sono finiti? Forse che gli svizzeri non sono più in grado di guidare delle aziende? Oppure i CEO “nostrani” sono andati tutti all’estero?”.
Ma il fenomeno può essere frenato? “Con la globalizzazione, mi pare difficile – risponde Ambrosetti – e va considerato che gli stipendi alti che caratterizzano il nostro paese, uniti all’euro basso, ci rendono particolarmente attrattivi per il lavoratore straniero: manager compreso. Non credo che sia possibile inventarsi degli strumenti legali per contrastare questo processo”.
“A questa situazione mi ribello”
Decisamente preoccupato Nando Ceruso, vicesegretario sindacale OCST: “I manager stranieri possono porre dei gravi problemi di cultura imprenditoriale. Non conoscono il contesto del paese dove operano, e nemmeno il suo diritto del lavoro. Inoltre, c’è il rischio concreto che il dirigente straniero collochi, a propria immagine, manodopera d’importazione a tutti i livelli aziendali, riducendo gravemente gli sbocchi professionali del personale indigeno. Del resto, la recente storia di certe grandi banche elvetiche ci dimostra quello che può succedere affidandosi a manager d’importazione…”.
“A livello d’industria – prosegue Ceruso – la situazione può essere anche peggiore. Il rischio che il CEO straniero dimostri scarsa, o nessuna considerazione nei confronti del tessuto professionale locale e degli interessi del territorio, non è campato in aria . Il fatto che già ora il 45% dei dirigenti delle grandi aziende elvetiche sia straniero, e che nel giro di qualche anno i manager stranieri possano diventare la maggioranza, mi inquieta. La cultura del lavoro svizzera è stata a lungo un punto di forza del Paese; un “atout” che veniva guardato dall’estero con ammirazione e anche con invidia. Adesso si pone la concreta prospettiva di un suo inquinamento con politiche aziendali spregiudicate, estranee alle nostre tradizioni, portate da manager esteri che se infischiano degli interessi del territorio, ed anche dei sindacati e della politica; dirigenti che non sentono alcuna responsabilità morale nei confronti di un paese, di una comunità, di cui non fanno parte e con cui non hanno legami; anche perché nei giro di un paio d’anni potrebbero trovarsi dall’altra parte del mondo. Questo diversamente dall’imprenditore locale, che ha legami col territorio e che sente una responsabilità nei confronti della popolazione con cui convive. Il problema si fa poi anche politico: fino a quando i cittadini svizzeri saranno disposti ad accettare di essere esclusi dalle attività create dai loro antenati? Io a questa situazione mi ribello”.
Problema formazione
Per Fabio Regazzi, vicepresidente AITI (Associazione industrie ticinesi) e consigliere nazionale, «Questo fenomeno evidenzia soprattutto il problema della formazione dei dirigenti svizzeri. Se si attinge a curricoli stranieri significa che il nostro sistema di formazione per manager di alto livello non funziona. Quindi bisogna anzitutto chiedersi cosa cambiare nelle nostre università. Le conseguenze di questa situazione possono sì comportare un impoverimento della nostra cultura imprenditoriale, ma per certi versi anche costituire uno stimolo per i manager svizzeri a migliorare le proprie conoscenze e capacità. Sono perciò dell’avviso che una sana competizione anche in questo ambito non sia del tutto negativa. Dall’altro canto – conclude Regazzi – nella storia recente dell’economia i più clamorosi dissesti (vedi Swissair, UBS) sono il frutto di strategie scellerate adottate da manager svizzeri».
Lorenzo Quadri