Consiglio federale: esempio di come non si conduce una trattativa

Come c’era da aspettarsi, la situazione post-voto della vicina ed ex amica Penisola è quantomeno caotica. C’è già chi vorrebbe rifare le elezioni.
Per quel che riguarda gli accordi fiscali, adesso più che mai la parola d’ordine è “calma e gesso”. E’ fin troppo evidente, infatti, che l’unica aspirazione dell’autorità federale a tal proposito è quella di essere in regola con i Diktat europei, costi quel che costi: anche migliaia di posti di lavoro sulla piazza finanziaria ticinese (per i quali nessuno mai scenderà in piazza).
Bisogna quindi evitare che qualcuno da Berna subito si precipiti ad intavolare trattative e magari a siglare accordi con un governo che potrebbe essere già in fase terminale ancora prima di cominciare a lavorare.
La priorità elvetica non deve in nessun caso essere quella di “mettersi in regola” a tutti i costi (con chi? Con cosa?). Deve essere quella di tutelare gli interessi della piazza finanziaria svizzera e ticinese, e dei suoi posti di lavoro.
Non c’è alcuna fretta di sottoscrivere accordi fiscali con l’Italia, e piuttosto che avere un cattivo accordo è meglio non avere accordi. Soprattutto deve essere chiaro a Berna che il Ticino non deve né può diventare un tassello sacrificabile nell’ottica di un interesse superiore, o presunto tale, che nel caso concreto sarebbe solo la “voglia matta” di genuflettersi all’UE.
Non sarebbe peraltro la prima volta che questo accade: infatti nel 1974 in occasione delle sottoscrizione dei trattati (tuttora in vigore) sui ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri si è verificata proprio una situazione di questo tipo. Il Ticino ha pagato – e ancora paga – per tutti. La compensazione che era stata promessa da Berna non è mai arrivata.

Come NON si tratta
Lunedì mattina, proprio quando in Italia impazzivano proiezioni ed exit poll, al Palazzo dei Congressi di Lugano si teneva una “lectio magistralis” del prof Michael Tsur, considerato il guru mondiale della negoziazione, con annessa tavola rotonda.
Il prof Tsur, israeliano, è stato ed è impegnato nelle più difficili trattative in Medio Oriente.
Tra i numerosi punti emersi in questo intenso appuntamento (di livello internazionale) un paio ben si applicano all’attuale situazione elvetica e alla difficile stagione di trattative (chiamiamole così) in cui rischiamo di lasciarci il pennacchio.
1) Non si negozia con tutti i partner allo stesso modo: invece, evidentemente, a Palazzo federale si crede che con l’Italia – che gli svizzerotti li fa fessi davanti e di dietro – si possa trattare come si farebbe con la Germania.
2) Per saper negoziare bene i propri interessi in tempo di crisi serve una lunga tradizione. La Svizzera non l’ha. E’ infatti evidente che basta dare l’impressione al Consiglio federale di trovarsi sul banco degli imputati, ossia di essere il cattivo di turno per via del segreto bancario, che subito Berna perde la testa e si abbandona a concessioni inconsulte (altrimenti detto, cala le braghe).
3) In un negoziato mai avanzare per primi delle offerte perché la controparte giocherà immediatamente al rialzo. Ed è invece proprio quello che accade. La Svizzera entra subito nel gioco perverso delle concessioni sempre maggiori. E poi non riesce a tirarsene fuori. Non passa quasi giorno senza che ci sia notizia di un nuovo cedimento in una catena che pare essere senza fine. Non si capisce (eufemismo) se c’è, e se sì qual è, il limite sotto il quale non si scenderà; l’impressione, quasi una certezza, è che il limite proprio non ci sia. Il risultato è che, a furia di concessioni dettate dal terror panico di passare per cattivi e razzisti, la piazza finanziaria svizzera ha subito in tempi record un gigantesco danno di competitività. In 5 anni in Ticino – lo dice il blasonato giornale romando l’Agéfi – nelle banche sono stati cancellati 1200 posti di lavoro. Va da sé che il peggio deve ancora venire.
Per cui la parola d’ordine non può che essere: lasciamo l’Italia nel suo brodo e teniamoci la piazza finanziaria, che è meglio!
Lorenzo Quadri