I moralisti e giustizialisti a senso unico strumentalizzano cinicamente la vicenda del 17enne, per lui di certo dolorosa, per farsi propaganda elettorale sulla sua pelle.
In realtà a kostoro che il ragazzo possa restare in Svizzera o meno importa ben poco: il loro obiettivo è tentare di mettere in difficoltà il direttore leghista del Dipartimento delle Istituzioni Norman Gobbi
Tra le ondate di sdegno dei moralisti a senso unico, è stata stabilita l’espulsione dei giovane kosovaro Arlind.
La misura è stata decisa non perché il ragazzo sia un delinquente o abbia fatto qualcosa di male ma, semplicemente, perché non ha il diritto di restare. Ciò è stato stabilito non da qualche esagitato populista e razzista, bensì dal Consiglio di Stato e dal Tribunale amministrativo, con una sentenza cresciuta in giudicato.
Sentenza cresciuta in giudicato significa definitiva e quindi da attuare. Punto. Fa specie dunque vedere i soliti moralisti a senso unico ed in funzione partitica che adesso si agitano come sui carboni ardenti perché ad una sentenza cresciuta in giudicato viene data esecuzione.
Ohibò, ma non erano forse gli stessi che starnazzavano ogni volta che la Lega o questo giornale si permettevano di criticare una sentenza? “Scandalo! Tentativo di ingerenza nella giustizia! Violazione della separazione dei poteri”! Evidentemente la separazione dei poteri, così come tutti gli altri principi, per i buonisti a senso unico vale solo in alcuni casi e non in altri. Fa poi piacere vedere che il partito $ocialista, che ogni tre per due si riempie la bocca con il mantra del “rispetto delle regole” (ancora nei giorni scorsi si leggeva una presa di posizione del direttore del DECS Manuele Bertoli intitolata “riconoscere le regole”) quando torna comodo viene colpito da amnesie selettiva. Ohibò.
E come la mettiamo col paludato ex partitone, infarcito di giuristi di ogni ordine e grado (compresi i giudici del Tram) a cui improvvisamente non sta più bene che le sentenze cresciute in giudicato si applichino?
E’ evidente che la panna sul caso Arlind è stata montata dai partiti $torici nel tentativo, abortito, di mettere in difficoltà il dipartimento delle istituzioni e quindi il suo direttore, il leghista Norman Gobbi. L’ennesima montatura partitica finita in una bolla di sapone. E’ poi un dato di fatto che di cittadini stranieri di ogni età a carico dello Stato sociale svizzero ce ne sono a sufficienza. Non avere un’entrata non è un reato. Ma le condizioni per arrivare in Svizzera sono chiare. Non possiamo mantenere tutti. Quanto alla sospensione dell’espulsione per motivi psicologici: che Arlind abbia voluto giocare anche questa carta, ci può stare; ma che sia stata tenuta buona per mesi molto meno. Manca solo la giustificazione dello psicologo per non pagare le tasse, poi c’è tutto.
La legge vale solo per i ticinesi?
Chiunque umanamente può comprendere il dolore e lo sconforto del ragazzo espulso. Se dall’estero vorrà ripresentare una domanda di ricongiungimento familiare, lo farà e si vedrà l’esito.
Ma dura lex sed lex, come dicevano i latini. Il giovane Arlind è forse l’unica persona in questo Cantone a dover fare i conti con una decisione dello Stato che gli provoca sofferenza?
Quanti ticinesi si sono visti negare un aiuto o un sostegno che loro ritenevano necessario perché è stato stabilito che non ne avevano diritto? Forse che per questi ticinesi in difficoltà si è mobilitato il partitume? Forse che i $indakati di $inistra hanno lanciato accorati appelli? A proposito: cosa c’entrano i $indakati di $inistra con questa storia? Quelli che, invece di difendere l’occupazione dei ticinesi, difendono i frontalieri ed assumono pure sindacalisti frontalieri per meglio raggiungere questo scopo? Tentano anch’essi, così come l’ex partitone con i ristorni dei frontalieri, di gettare fumo negli occhi? E com’è che questi $indakati, che divulgano proclami roboanti e partiticamente interessati sul caso Arlind, non fanno un “cip” davanti ai numerosi licenziamenti di ticinesi sostituiti con frontalieri? Lo stesso Mattino della domenica ha segnalato il caso di un cittadino italiano rimpatriato malgrado avesse famiglia in Ticino. Ma di cortei mica se ne sono visti.
Con il caso Arlind, i partiti $torici hanno tentato di cavalcare il populismo buonista, ma gli è andata buca per l’ennesima volta. Ci mancherebbe che le sentenze cresciute in giudicato non venissero applicate perché non piacciano a quelli che, colmo dell’ipocrisia, del rispetto della legge hanno fatto un mantra, naturalmente da ripetere solo quando fa comodo pro sacoccia.
O magari i rigori della legge e delle regole valgono solo per i ticinesotti fessi, mentre per chi viene da “altre culture” no?
Lorenzo Quadri