Non è certo una sorpresa. Al DFE, invece di trovare delle soluzioni per arginare l’invasione dei frontalieri e dei padroncini si giochicchia con le cifre, in perfetto stile SECO (si vede che il metodo fa scuola).
Del resto la stessa direttrice del DFE, invece di portare delle proposte per promuovere l’occupazione dei residenti, si limita a lamentarsi dei presunti populismi.
Il direttore della divisione dell’Economia, come pure la sua Consigliera di Stato, invece di investire tempo ed energie nel tentativo di “interpretare” le statistiche per dichiarare una percentuale inferiore di frontalieri sul totale, farebbe meglio a pensare a questioni più concrete.
Se si pensa di rispondere ad una situazione di conclamata emergenza contestando i punti percentuali, vuol dire che qualcosa non funziona. E’ in prima linea il DFE, da tempo immemore feudo Plr, a dover formulare delle proposte concrete. Invece non arriva nulla. Nemmeno il grido d’allarme dell’Unione delle associazioni dell’edilizia (UAE) sull’invasione di frontalieri ha smosso le acque. La risposta governativa è sostanzialmente una desolante (eufemismo) lista di “sa po’ mia”. Il DFE dovrebbe avere un ruolo propositivo; invece sembra aver assunto quella del becchino delle proposte altrui.
Non è tentando di truccare le statistiche che si risolvono i problemi occupazionali del Ticino. Truccare le statistiche è un’operazione puramente politica. Un’operazione che cela la volontà di minimizzare i problemi e quindi di screditare partiticamente chi i problemi li ha indentificati, denunciati e ha anche proposto delle soluzioni.
Ad esempio, è assurdo calcolare il numero dei frontalieri senza contare anche padroncini e distaccati, che sono anch’essi, è ovvio, una forma di frontalierato.
Aspettiamo allora di vedere, visto che si parla di cifre, in quante giornate lavorative si trasformeranno le 38mila notifiche di padroncini e distaccati attese entro fine anno. Dal numero delle giornate lavorative si può facilmente risalire al numero di posti di lavoro corrispondenti. Posti di lavoro che i ticinesi non hanno. E le conseguenze si vedono e si sentono.
Il fatto – ad esempio – che la disoccupazione giovanile in Ticino sia al 15%, e stiamo parlando delle statistiche ufficiali, che sono incomplete poiché numerose categorie di senza lavoro non sono conteggiate, non è una questione cui si può rispondere andando a sindacare sulle percentuali.
Il punto è che, contrariamente a quanto vanno raccontando Oltreconfine in funzione di scarica-barile (“andate in Svizzera”), di lavoro per tutti, nel nostro piccolo mercato, non ce n’è. Di conseguenza, più persone ci sono, più saranno quelle che non troveranno un’occupazione. I posti disponibili in Ticino devono quindi andare prima ai ticinesi. E non è certo una questione di razzismo, ma di necessità. Uno Stato è responsabile per il benessere dei propri cittadini. Da anni, invece, accade proprio il contrario. Perché bisogna mostrarsi “aperti”, internazionalisti, politikamente korretti. Si sacrifica senza remore il nostro benessere nel vano tentativo di adeguarsi a quanto viene spacciato (da chi? Con quale legittimità?) come bello e buono. E gli svizzerotti, timorosi di passare per razzisti e xenofobi, si adeguano.
Lorenzo Quadri