Si torna giustamente a parlare di come e dove spendono i soldi pubblici enti ed associazioni che ricevono sostegni dallo Stato. La deputata leghista Amanda Rückert ed il capogruppo PPD in Gran Consiglio Fiorenzo Dadò hanno di recente presentato un’iniziativa parlamentare in cui in sostanza chiedono di elaborare le necessarie disposizioni legali affinché chi riceve aiuti pubblici non vada poi a spenderli in Italia, andando così ad ingrassare l’economia del Belpaese con i soldi del contribuente.

Non sempre c’è consapevolezza
Già il fatto che sia necessaria un’iniziativa parlamentare – e quindi nuovi articoli di legge – per ottenere una cosa che dovrebbe essere scontata (i soldi pubblici ticinesi si spendono in Ticino) non è certo un bel segnale. Il proliferare di leggi segna la sconfitta del buonsenso. Il problema del frontalierato, dei padroncini, di tanti artigiani ed aziende locali in seria difficoltà a causa della concorrenza sleale d’oltreconfine, è sulla cresta dell’onda ormai da parecchio tempo. Il plebiscito del 9 febbraio dimostra che, al proposito, la consapevolezza c’è. Evidentemente però la consapevolezza non fa breccia ovunque. Spendere i sussidi all’estero è una misura di risparmio che permette di chiedere meno aiuti? E’ chiaro che non è così che può funzionare: l’operazione è insensata. Se per un’associazione o un evento il risparmio conseguito spendendo i contributi pubblici in Italia è l’unico sistema per continuare ad esistere, situazione peraltro difficile da immaginare, occorre forse che beneficiario ed erogatore di sussidi si mettano a tavolino per decidere il da farsi. Ma il colmo è che in certi casi la spesa in Italia non porta neppure un tornaconto apprezzabile.

Due pesi e due misure?
E’ evidente che l’utilizzo di soldi pubblici in patria, quindi a vantaggio dell’economia locale, deve funzionare a tutti livelli. L’ente statale è messo male nel pretendere da associazioni e privati di spendere i sussidi in Ticino se poi lui è il primo a chiamare ditte e fornitori esteri. Al proposito ci sono cantieri pubblici del costo di centinaia di milioni, vedi LAC, sulle cui ricadute per le aziende locali è meglio stendere un velo pietoso. In queste condizioni fare il “mazzo” alla pro-vattelapesca che ha speso (esempio inventato) 3000 Fr di contributi pubblici in magliette stampate oltreconfine ricorda molto da vicino la storiella della pagliuzza e della trave.
Ben vengano quindi le regole sui sussidi ad associazioni ed enti, ma non ci si dimentichi di appalti e lavori pubblici, che devono privilegiare le aziende locali, ossia quelle che fanno lavorare manodopera residente. Perché il giochetto della sede-bucalettere in Ticino creata appositamente per “portare a casa” un mandato è logoro; però viene riproposto di continuo. E c’è sempre chi ci casca.

La Lega si dà da fare
Sul fronte del “i soldi dei ticinesi si spendono in Ticino”, la Lega si è data da fare. E continuerà. Vedi le iniziative del Consigliere di Stato Zali per dare la priorità alle “nostre” ditte negli appalti pubblici. Anche l’albo anti-padroncini si inserisce in questo solco. Chi scrive ha chiesto tramite mozione a Berna che nell’assegnazione di appalti pubblici l’azienda che ha molti dipendenti frontalieri riceva dei punti malus in graduatoria; quella che ne ha pochi, invece, dei punti bonus. Ma naturalmente la risposta è stata “sa po’ mia” perché “non si può discriminare” (uella). Se la nostra priorità, invece di essere quella di coltivare il nostro orto (o innaffiare il nostro giardino, per citare lo spot creato dalle associazioni economiche ticinesi), consiste nel “non discriminare” operatori economici stranieri – ovviamente a danno di quelli locali – non c’è da stupirsi se andiamo male.
Lorenzo Quadri