Sbloccare i ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri è un’eventualità che non deve nemmeno entrare in linea di conto, piaccia o non piaccia alla Consigliera federale Widmer Schlumpf.

La quale, peraltro, nemmeno con uno sforzo ginnico di fantasia può essere ritenuta nella condizione di esercitare pressioni su chicchessia, data la precarietà del suo seggio governativo, probabilmente giunto al capolinea.

Il blocco del 50% dei ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri (ma li si sarebbe anche potuti bloccare integralmente) è stata una mossa azzeccata e doverosa. Una mossa resa necessaria dalla deplorevole passività del Consiglio federale nell’intervenire a tutela del Ticino, della sua piazza finanziaria ed economica finite nel mirino di Giulio Tremonti, ministro delle finanze di un governo ormai caduto. Era impensabile assistere passivamente a simili attacchi senza reagire. Ma è quello che avrebbe continuato a fare il Consiglio federale, malgrado fosse l’autorità competente in materia di relazioni internazionali. Da qui la necessità di assumere un ruolo attivo: un risultato che solo il raddoppio leghista in Consiglio di Stato ha reso possibile.

Alzare bandiera bianca ora, sbloccando i ristorni, sarebbe una catastrofe.

La situazione politica ed economica dell’Italia, rimasta senza governo, è nota a tutti. Che senso ha, per la Svizzera, negoziare adesso?

Eppure pare che, contro ogni logica, siano in corso delle trattative, le quali sarebbero addirittura in fase avanzata (?).

Il rischio è evidente: ossia la conclusione di accordi contrari all’interesse del Ticino, dettati dalla foga federale di stipulare trattati per il puntiglio, fine a se stesso e tutto svizzero-tedesco, di poter dire di “essere in regola”. E poco importa se gli interessi ticinesi vengono sacrificati sull’altare delle fregole regolarizzatrici.

Il precedente è ormai famigerato: il tasso dei ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri, fissato nel 1974 al 40% (in seguito è sceso al 38.8%): percentuali assurde, che nel corso dei decenni hanno pesantemente penalizzato il Ticino, nell’interesse generale (indiscutibile; ma, appunto, generale) del segreto bancario. Insomma: il nostro Cantone ha pagato per tutti. Una verità emersa nella sua crudezza dallo studio che il Municipio di Lugano ha commissionato al prof Marco Bernasconi (ma dev’essere sempre e  solo il Municipio di Lugano a muoversi?).

Il rischio di un bis è dietro l’angolo. Siamo rimasti scottati a più riprese: se il Consiglio di Stato ci ricasca nuovamente, c’è davvero di che preoccuparsi.

A pagare il prezzo di accordi sballati tra Roma e Berna non è la Romandia e nemmeno la Svizzera tedesca. E’ il Ticino. E il Ticino rischia di ritrovarsi ancora una volta ingabbiato in contratti capestro conclusi sopra le nostre teste.

L’autorità ticinese ha dato delle indicazioni a chi starebbe negoziando con Roma – e starebbe negoziando in un momento in cui farlo è un’assurdità completa? In che misura l’autorità ticinese è coinvolta delle presunte trattative con l’Italia? E soprattutto: in che misura ha preteso di essere coinvolta? Questi sono alcuni interrogativi che necessitano di una risposta.

Le pressioni di Widmer Schlumpf non preannunciano nulla di buono. Trattare adesso è un nonsenso completo. Vorrebbe dire, appunto, che l’obiettivo non è raggiungere un accordo vantaggioso per il Ticino, ma raggiungere un accordo qualsiasi, e poi “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. Ma non è così che può funzionare.

L’Italia cominci a dimostrare di essere in grado di esprimere un governo e di non essere in bancarotta, poi se ne riparla. Ed in nessun caso i ristorni delle imposte alla fonte dei frontalieri, bloccati dopo tante battaglie, vanno liberati prima della conclusione, e della messa in vigore, di un accordo sulla doppia imposizione e sul ristorno delle imposte alla fonte dei frontalieri che salvaguardi gli interessi ticinesi e che garantisca la cancellazione della Svizzera da ogni lista nera o grigia concepita dal creativo estro italico. Decidere altrimenti sarebbe, da parte del Consiglio di Stato, un tradimento degli interessi del Cantone.

Lorenzo Quadri