Disoccupazione: non ci possiamo permettere un “esercito” di persone in assistenza

In Ticino si è purtroppo raggiunto un nuovo record di casi d’assistenza. Quasi 9000 persone si trovano infatti in questa condizione. Un terzo di esse ha meno di 26 anni. Certamente, come in tutte le assicurazioni sociali, c’è chi fa il furbo. Al proposito è interessante notare come proprio la RSI ha di recente realizzato una puntata di Falò a proposito dei finti invalidi. Il servizio contiene l’intervista ad un investigatore privato incaricato di indagare su casi sospetti. Il  professionista rilascia dichiarazioni degne di nota. Ad esempio, che l’80% dei truffatori non sono svizzeri. Ma guarda un po’! Ma come, gli stranieri che abusano dell’AI non erano tutta una balla della Lega populista e razzista?
A questo punto è anche lecito immaginare che, per un ovvio parallelismo, la maggioranza di chi percepisce l’assistenza ma nel frattempo lavora in nero (o beneficia di altre entrate “nascoste”) non abbia il passaporto rosso.

Cosa conta di più?
Facendo astrazione dai truffatori, è però innegabile che, per chi si trova in assistenza contro la sua volontà, perché non ha altra alternativa, la situazione sia deprimente ed umiliante. Ma uscire dall’assistenza diventa sempre più difficile, perché il mercato del lavoro ticinese è saturato da frontalieri e padroncini. La colpa, ormai l’hanno capito anche i paracarri, è della libera circolazione delle persone senza limiti. E soprattutto della colpevole e scandalosa rinuncia dei partiti storici a difendere il mercato del lavoro di questo Cantone. Come se lo sciagurato mantra del “dobbiamo aprirci” contasse più della dignità e della sussistenza dei ticinesi.

Non adagiarsi
Naturalmente la situazione difficile non giustifica che l’ente pubblico si adagi su un’inerzia di comodo, all’insegna del “sa po’ fa nagott”. Ancora peggio sarebbe virare su soluzioni squinternate come il reddito di cittadinanza (iniziativa in votazione il prossimo giugno), che invece di sostenere chi vuole uscire dall’assistenza, regolarizza la situazione di quelli che  scelgono scientemente di trascorrere la vita in panciolle: tanto qualcuno (chi?) provvederà a mantenerli. Un po’ come dire che, dal momento che molti rubano, allora bisogna depenalizzare il furto.

Programmi di lavoro
L’ente pubblico è dunque chiamato a dotarsi di strumenti per far uscire il maggior numero possibile di persone dall’assistenza.  Si tratta dunque di far sì che i datori di lavoro assumano disoccupati ticinesi invece di frontalieri. Per raggiungere lo scopo, occorre potenziare gli aiuti al collocamento. La città di Lugano, grazie soprattutto al Nano, negli scorsi anni ha potuto disporre di un numero importante di programmi di lavoro. Essi da un lato occupavano temporaneamente dei disoccupati (con priorità ai giovani) nei servizi della città, e permettevano così a questi ultimi di  accumulare esperienze professionali. Dall’altro comprendevano la creazione di una fitta rete di contatti con le aziende, così da poter fornire a queste ultime, pescando tra i cercatori d’impiego seguiti, dei profili idonei.
Fondamentale è creare quel rapporto di fiducia che fa sì che l’impresa in cerca di dipendenti vada a chiederli prima all’ente pubblico di riferimento. Oggi a Lugano le assunzioni temporanee non ci sono più (il credito che le finanziava è esaurito) mentre è rimasta la rete di sostegno. Quest’ultima, alla luce della continua ed inquietante crescita delle cifre dell’assistenza, andrebbe però potenziata.

Le risorse ci sono
Certamente il sostegno attivo e capillare al collocamento dei disoccupati necessita di energie e di risorse adeguate. Ma l’investimento è  pagante, anche in termini economici. Per ogni persona che esce dall’assistenza e trova un lavoro, l’ente pubblico risparmia, e parecchio. Sia in franchi del contribuente che in problemi sociali, i quali comportano a loro volta dei costi.
Dove trovare le risorse necessarie? A Lugano, ad esempio, si potrebbe – senza andare a cercare molto lontano – spendere un po’ meno nella cultura “esclusiva” e più nel collocamento dei senza lavoro. Perché non è mica tanto normale che per la cultura ci siano milioni a vagonate e per l’inserimento professionale a malapena le briciole. Becero populismo? Forse meno di quello che vorrebbe far credere certa élite politikamente korretta con i piedi al caldo.
Lorenzo Quadri