Lavorare a percentuale ridotta? Una medaglia con vari rovesci (per la collettività)

C’è una tendenza evidente nei giovani. Tutti i datori di lavoro di una certa dimensione la osservano: la volontà di lavorare non più al 100%, ma ad una percentuale ridotta. Nella generazione dei “millenials” (nati tra il 1981 ed il 1996) il 40% delle donne  è occupata a tempo parziale. Per gli uomini siamo circa al 22%. Entrambe le quote sono raddoppiate rispetto alla generazione precedente (quella dei nati tra il 1965 ed il 1980). Il trend non interessa solo i neo-genitori per questioni di conciliabilità famiglia-lavoro, ma anche uomini e donne senza figli.

Dunque per i giovani l’attività professionale al 100%, tipica dei loro genitori, diventa sempre meno un modello da seguire. Molti di loro hanno un disegno di vita diverso. Vogliono avere più tempo per sé; per i propri interessi, relazioni, attività. La parola d’ordine è: “meno lavoro, più qualità di vita”. Ma non tutto è rose e fiori. C’è qualche problemino da non sottovalutare.

Ad esempio:

  • Alcune settimane fa il presidente dell’Unione svizzera degli imprenditori Valentin Vogt ha ammonito: per mantenere il benessere (?) che caratterizza il nostro Paese, gli svizzeri devono lavorare di più. Altrimenti addio crescita economica (bisognerebbe vedere chi beneficia della cosiddetta “crescita”, ma questo è un altro discorso).
  • C’è poi il tema, tanto caro alla casta, della presunta “penuria” (termine diventato di gran moda) di manodopera, ormai assurto a mantra buono per sdoganare ogni nefandezza immigrazionista. Ma se dopo 20 anni di frontiere spalancate, con la popolazione della Confederella aumentata del 21%, (un tasso che non ha uguali), ancora manca manodopera, vuol dire che la politica migratoria della partitocrazia è integralmente toppata: ad arrivare non sono gli stranieri di cui il Paese ha bisogno. Tuttavia, se sempre più svizzeri lavorano a tempo parziale, la casta ha buon gioco nel blaterare che manca personale indigeno e quindi… devono entrare tutti! In quei settori in cui davvero si fatica a trovare la manodopera necessaria (vedi cure infermieristiche) l’eccesso di tempi parziali genera tuttavia delle difficoltà reali. Oltretutto gestire tanto personale a percentuale ridotta, a maggior ragione dove si lavora a turni come è il caso del settore sanitario, diventa complicato e fonte di ulteriori costi amministrativi.
  • Lavorare a tempo parziale è un lusso che non tutti si possono permettere. Di per sé, l’opzione è alla portata solo di chi ha stipendi elevati. Gli altri, se scendono (ad esempio) al 70%, non arrivano più a fine mese. Poiché a sostenere il “meno lavoro” sono in primis le solite cerchie di $inistra, si prende atto che per l’ennesima volta i kompagnuzzi promuovono le richieste di una cerchia privilegiata. Altro che “Per tutti, senza privilegi” come recita lo slogan del P$!
  • Lavorare meno significa guadagnare meno e dunque pagare meno imposte. La NZZ am Sonntag ha dedicato un interessante servizio alla questione. Il domenicale porta l’esempio di un giovane insegnante che, lavorando al 100%, guadagnerebbe 8500 franchi mensili. Riducendo il grado d’occupazione al 70% la paga scende a 6300 franchi. A fronte però di un risparmio importante sul fisco e sulle spese di accudimento figli. Tirando le somme, al diretto interessato a fine mese rimane in tasca più o meno la stessa cifra. Quindi, chi glielo fa fare di lavorare a tempo pieno? Da notare che la NZZ calcola le imposte sulla base del fisco zurighese. Ma in Ticino le aliquote sono molto progressive con l’aumentare del reddito: quindi il tempo parziale, dal punto di vista dell’ottimizzazione fiscale, risulta probabilmente ancora più attrattivo. Per il singolo, ovviamente. Non per l’ente pubblico, che perde gettito. Quindi, a svuotare le casse statali sono i $inistri paladini del tempo parziale e del lavorare meno (del resto nella gauche-caviar la “cannetta di cristallo” è un disturbo diffuso).
  • Tuttavia a lavorare meno ci si perde anche in termini pensionistici. Questo significa che in prospettiva futura lo Stato avrà meno gettito e dovrà finanziare più sussidi (prestazioni complementari). Risultato: aggravi fiscali!
  • Qual è la categoria che guadagna di più? In termini generali, si tratta degli accademici. In media, si legge sempre sulla citata NZZ, il loro salario è del 53% più elevato di chi ha svolto un apprendistato. Gli accademici sono anche le persone che più hanno fatto spendere la collettività per la propria formazione. Uno studio universitario costa mediamente 120mila franchi. Lo studente ce ne mette solo una parte (se così non fosse, le formazioni superiori sarebbero un privilegio per ricchi). La differenza la versa il contribuente. Visto che però in genere i laureati, una volta entrati nel mondo del lavoro, guadagnano di più, poi pagano tante tasse e quindi la collettività viene rimborsata della spesa affrontata per farli studiare. Se però chi si laurea facendo spendere tanti soldi allo Stato poi versa poche imposte perché “ottimizza” lavorando meno, il sistema non funziona più. E quindi? Quindi, andrà a finire che si aumenteranno le rette di iscrizione ad Università, Politecnici e Scuole universitarie professionali. Richieste in questo senso già si sentono. Oppure si pretenderanno dai laureati forme di rimborso una volta conclusi gli studi (in taluni paesi già esistono).
  • Tra parentesi, lo stesso effetto perverso (universitari che sono costati tanto ma che pagano poche imposte) lo provoca la devastante libera circolazione delle persone – voluta dalla partitocrazia – con il dumping salariale, che colpisce in particolare il terziario.
  • L’attuale modalità di spesa pubblica di sicuro non stimola il contribuente a lavorare a tempo pieno per pagare più tasse. I soldi pubblici vengono sperperati senza ritegno: regali miliardari all’estero, altri miliardi spesi per mantenere finti rifugiati, ancora miliardi per foraggiare immigrati nella socialità, per tenere in piedi un’amministrazione statale gonfiata come una rana, per finanziare politichette ideologiche ro$$overdi di “decarbonizzazione”, eccetera eccetera. Chiaro quindi che il Gigi di Viganello impiegato al 70% si chiede: “Salire al 100%? Ma chi me lo fa fare?”.

Morale della favola: forse è ora di tornare ad incentivare il lavoro a tempo pieno, invece di continuare a magnificare il tempo parziale con un vero e proprio lavaggio del cervello nel nome del politikamente korretto.

Lorenzo Quadri