Proprio vero che la storia si ripete. Di recente siamo venuti in possesso della copia di un documento, assai interessante, al quale abbiamo accennato le scorse settimane su queste colonne. Si tratta di un avviso, pubblicato dall’Ufficio cantonale di collocamento e datato 17 febbraio 1927. Quindi un “pezzo d’antiquariato”. L’originale è in possesso di un gentile lettore, che ce l’ha cortesemente mostrato. Leggendo il documento, ci si imbatte in una premessa che non lascia adito ad alcun dubbio: “La difesa dell’operaio indigeno dalla concorrenza della manodopera d’altri paesi, che deprime a danno di tutti il mercato del lavoro, costituisce oggi uno dei principali problemi da risolvere”. E sono passati quasi 90 anni!

Figuriamoci oggi…
Se tale era “uno dei principali problemi da risolvere” quando la libera circolazione era ancora al di là da venire, figuriamoci oggi che essa è una devastante realtà. Ed è triste vedere come nel 1927 il preambolo citato sembrava, evidentemente, del tutto naturale. Mentre oggi, se un ufficio statale si sognasse di uscirsene con una dichiarazione del genere, gli strilli al populismo e al razzismo non finirebbero più. Difendere il proprio mercato del lavoro è diventato cosa riprovevole. Non è politikamente korretto! Bisogna aprirsi!
Il fenomeno della sostituzione della manodopera residente con quella straniera, e la necessità di combatterlo, era dunque noto già nel 1927. Anche allora si sapeva benissimo che immigrazione NON E’ affatto uguale a ricchezza. Però oggi, a quasi 90 anni di distanza, ci dobbiamo sorbire gli studi taroccati dell’IRE, che pretendono di negare l’evidenza. Un insulto al buonsenso, e per di più pagato con i nostri soldi.

I numeri non mentono
Il vecchio avviso dell’Ufficio del lavoro conferma la certezza che, se il nostro paese non fosse stato svenduto in nome delle becere “aperture”, se avessimo seguito le indicazioni dei nostri nonni e bisnonni, adesso staremmo decisamente meglio. E avremmo un mercato del lavoro dove i ticinesi hanno la priorità, invece di essere, in casa propria, l’ultima ruota del carro!
I numeri, al contrario delle indagini farlocche e pilotate dal committente per farsi dire quello che vuole sentire (ossia che con la libera circolazione delle persone va tutto per il meglio), non mentono. In particolare, non mentono i numeri sull’evoluzione del frontalierato. Ne citiamo solo un paio, ma assai significativi.
– Dal 2002 al 2015, i frontalieri sono passati da 31’911 a 62’555 unità (+ 30’644, + 96%!);
– Dal 2002 al 2015, i frontalieri nel terziario sono passati da 13’937 a 36’402; un aumento di 22’465 unità (+ 161%!).
Chissà cosa avrebbero detto i responsabili dell’Ufficio cantonale di collocamento del 1927 davanti a queste cifre!

Cambiare rotta
Adesso si tratta quindi di rimediare, senza lasciarsi fuorviare da chi, avendo spalancato le frontiere, è causa del problema, e quindi ha tutto l’interesse a negarne l’esistenza.
Il rimedio passa per il contingentamento e la preferenza indigena. Queste misure sono fattibili e reali. Del resto la stessa Gran Bretagna, che è membro fondatore dell’UE, ha detto chiaro e tondo che alle regole insensate attuali, che vogliono sottrarre agli Stati membri il controllo dell’immigrazione, non ci sta più. E lo crediamo bene. Un paese che non difende i propri confini è un paese finito. Spalancare le frontiere ci ha portato solo povertà ed insicurezza. E allora, semplicemente, bisogna cambiare rotta. Ma dov’è, oggi, quello Stato che 90 anni fa proclamava la necessità di “difendere l’operaio della manodopera d’altri paesi”? A blaterare che “dobbiamo aprirci”!
Lorenzo Quadri