Nuove proposte in Gran Consiglio
In Gran Consiglio si torna a parlare di naturalizzazioni, o meglio: dei requisiti necessari per ottenere il passaporto rosso.
Il deputato leghista Gianmaria Frapolli, assieme a cofirmatari di altri partiti, ha presentato un’iniziativa parlamentare affinché i naturalizzandi siano tenuti – quale presupposto per l’ottenimento del passaporto rosso – a seguire un corso obbligatorio alla cittadinanza, organizzato dal Cantone ma finanziato dai diretti interessati.
Qualsiasi nuova misura che aiuti a far sì che vengano naturalizzate solo persone effettivamente integrate è, ovviamente, positiva. Le naturalizzazioni facili sono infatti una realtà. Una realtà che emerge in modo chiaro anche dalle cifre: ogni anno vengono creati 50mila nuovi cittadini elvetici. Tutti integrati? Qualche dubbio, per usare un eufemismo, viene. Si pensi solo all’ultimo caso del giardiniere kosovaro di Chiasso, col passaporto svizzero fresco di stampa, arrestato per spaccio: il fratello è risultato essere coinvolto in una sanguinosa faida. E’ vero che le colpe di un fratello non devono ricadere sull’altro. Ma una qualche domandina sulla famiglia nasce spontanea, anche senza bisogno di essere populisti e razzisti.

Indipendenza economica
L’integrazione passa anche per l’indipendenza economica. Nella costituzione cantonale di Berna, a seguito di un’iniziativa popolare lanciata dalla sezione locale dei giovani Udc, è stato inserito un articolo che stabilisce che non è possibile naturalizzare persone a carico dello Stato sociale. Questa nuova norma ha ottenuto la garanzia federale lo scorso maggio, assieme al divieto di burqa ticinese. E, al pari del divieto di burqa, è stata oggetto degli starnazzamenti dei kompagni, secondo i quali l’immigrato nello stato sociale, finanziato dagli svizzerotti “chiusi e gretti” non solo non va espulso, Ma, al contrario, va premiato con la cittadinanza elvetica.
La validità della norma bernese è evidente. Va dunque introdotta anche a livello ticinese. Essere a carico dell’assistenza a lungo termine è un motivo di espulsione per un cittadino straniero. A naturalizzazione avvenuta, però, è evidente che l’argomento non può più essere fatto valere. Ed infatti, ma tu guarda i casi della vita, presso “certe etnie” i casi d’invalidità (magari psichica o per mal di schiena) o di assistenza aumentano in modo esponenziale dopo l’acquisizione del passaporto svizzero; e sì che da nessuna indagine medica emerge che quest’ultimo faccia male alla salute…

Doppio passaporto
Parlando di naturalizzazioni, occorre affrontare anche il tema del doppio passaporto. Una facoltà che è tempo di abrogare. Se uno si sente abbastanza svizzero da chiedere il passaporto rosso, non dovrebbe avere problemi a lasciare la nazionalità precedente. Chi non si sente di rinunciare alla cittadinanza originale, vuol dire che non è pronto per quella elvetica. Altrimenti è come pretendere di sposare una nuova moglie senza divorziare dalla precedente. Il trito argomento dei motivi affettivi che giustificherebbero il passaporto doppio o triplo non funziona: dietro i presunti motivi affettivi se ne nascondono spesso e volentieri di altri, molto pratici. Ossia, poter estrarre ora l’uno ora l’altro documento a seconda della convenienza contingente. Sicché il naturalizzato si troverebbe addirittura avvantaggiato rispetto allo svizzero di nascita.

Se l’hanno i politici…
Se il doppio passaporto è discutibile per i “comuni” cittadini, a maggior ragione lo è per i politici. Come si può pretendere di rappresentare credibilmente una nazione nelle istituzioni se non si è nemmeno in grado di sceglierla come unica patria?
In campo d’ipocrisia, i politici del multikulti e delle frontiere spalancate sono imbattibili. Ed infatti, se ad uno di essi viene rinfacciato il passaporto plurimo, ecco che subito si leva il coro di proteste dei compagni di merenda, che strillano come vergini violate: “vergogna! Razzisti! Sono questioni private!”. Ohibò. A parte che costoro dell’esistenza della sfera privata si ricordano rigorosamente a senso unico, solo quando fa comodo, è il colmo che a protestare sia proprio chi non perde occasione per sollevare conflitti d’interessi veri o presunti che siano (naturalmente solo quelli degli altri). Sicché si pretende che il politico di milizia di turno dichiari, per ragioni di trasparenza, l’appartenenza non solo a consigli d’amministrazione, che magari rendono anche, ma perfino a comitati di associazioni benefiche. Però al medesimo politico di milizia non si può chiedere quanti passaporti ha, perché non è politikamente korretto? E’ il colmo: essere membro di una società di utilità pubblica genera potenziali conflitti d’interesse, mentre essere titolare di uno o più passaporti stranieri no? E perché poi? Perché gli autocertificati detentori della morale, ossia gli spalancatori di frontiere, hanno decretato che il tema è tabù? Ma chi si crede di menare per il “lato B”?
Lorenzo Quadri