Sia chiaro che non si rinuncia ai nostri simboli per “non turbare” (?) immigrati provenienti da “altre culture”. Chi è turbato da un presepe non è al suo posto in Svizzera
Si avvicina il Natale (le vetrine sono già addobbate da un pezzo…) e con esso le polemiche stagionali. Con tanto di fetecchiate multikulti. Nessuna sorpresa: se in una scuola d’Oltregottardo qualcuno aveva pensato addirittura di vietare la camicia con gli Edelweiss dei contadini svizzeri, figuriamoci quando c’è di mezzo la più importante festività cristiana.
Ed infatti, a quanto si è appreso dai giornali, il comune di Neuchâtel è riuscito a far spostare il presepe da sotto l’albero principale allestito dalla città per evitare che quest’ultimo venisse associato a simboli religiosi. Naturalmente anche altre amministrazioni comunali sono riuscite a prodursi in sortite del genere. Non solo in Svizzera. Vicino a Milano, ad esempio, quindi non molto lontano da noi, una scuola ha deciso di annullare qualsiasi celebrazioni legata al Natale “per non turbare gli allievi di altre religioni”. Apperò. Il rettore dell’Istituto – non si fatica ad immaginare di quale corrente politica – davanti all’ondata di proteste ha dovuto rassegnare le dimissioni. Ma si è affrettato a precisare che rifarebbe tutto esattamente come prima.
Un “non problema”?
Il tema presepi e simboli religiosi è destinato ad assumere una risonanza sempre maggiore. Naturalmente non mancheranno quelli che suoneranno il vecchio ritornello del “non problema”. E già: si smantellano la nostra identità, le nostre tradizioni e le nostre radici cristiane e si cerca di minimizzare l’operazione di rottamazione sostenendo che in fondo si tratta di “non problemi”. Del resto anche il divieto di burqa avrebbe dovuto essere un “non problema”. Fin quando il popolo, ed anche il parlamento, non hanno dato torto ai multikulti che volevano tollerare (“dobbiamo aprirci”) alle nostre latitudini perfino il velo integrale, e magari un domani pure la sharia. Allora, improvvisamente, il burqa è diventato “un problema”; e la stampa di servizio ha tentato di aizzare gli ambienti turistici contro la norma. Ma come: se il burqa è un “non problema”, lo è sia che sia vietato, sia che sia autorizzato. O vuoi vedere che tra i politikamente korretti anche i problemi sono a senso unico?
Non è così che funziona
E’ evidente che non si rinuncia ai simboli del Natale, siano essi abeti, presepi o altro, per non turbare immigrati provenienti “da altre culture”. Chi propone aberrazioni del genere dovrebbe vergognarsi: ma come, si predica l’integrazione e poi si fa di tutto e di più per adeguarsi all’immigrato che la rifiuta? Secondo i noti – e certo non disinteressati – circoli (l’immigrazione è un business per certa industria sociale) l’immigrato va santificato e lo svizzerotto – chiuso e gretto – bastonato. E’ lo svizzerotto che deve integrarsi e rinunciare alle sue tradizioni.
Ma non è così che funziona. Gli attentati dei terroristi islamici ben dimostrano a cosa porta l’immigrazione scriteriata abbinata all’assenza dell’obbligo di integrarsi. Chi si sente offeso e turbato dalle nostre tradizioni non è al suo posto in Svizzera. Cominciamo a rendercene conto e a comportarci di conseguenza. Nel senso della “promozione attiva dei valori occidentali”, è senz’altro da salutare positivamente l’iniziativa parlamentare interpartitica depositata nei giorni scorsi dei granconsiglieri Gianmaria Frapolli (Lega) e Alessandra Gianella (PLR) che chiede, in vista della naturalizzazione, l’introduzione di un corso obbligatorio di cittadinanza, finanziato dal candidato medesimo. Le nozioni da sole, però, non bastano. L’integrazione va vissuta nel quotidiano, come doveroso passo dell’immigrato nei confronti del paese che lo ospita e che, magari, lo mantiene pure.
Lorenzo Quadri